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Ok per la Brexit. A quando l’Italiexit?

L’opinione del mercoledì

di Michelangelo Trebastoni

La Brexit si è conclusa. Boris Johnson ha definito l’iter farraginoso e irto di ostacoli voluto dai laburisti. Dopo quattro anni dal referendum con cui gli inglesi avevano deciso il divorzio, Elizabeth Queen ha potuto firmare l’atteso decreto senza battere ciglia. Si aprono nuovi orizzonti per l’economia inglese che, tutto sommato, non ha mai risentito, durante la sua permanenza, delle crisi dei vari paesi europei. Di fatto, la Britannia non aveva mai aderito all’euro, conservando la sua sterlina e la sua identità. Non ha mai dovuto sopportare le vessazioni delle varie commissioni europee che decidono di quanto deve essere larga la maglia delle reti dei pescatori o di quanto lunga la cerniera dei pantaloni. Non ha mai subito gli stravaganti accordi commerciali che avrebbero potuto penalizzare le proprie produzioni agricole a vantaggio di quelle extra comunitarie, come accade. Le previsioni delle istituzioni internazionali prevedono una crescita dell’economia britannica senza inciampi, più pessimista la BCE che ha tagliato le stime. Mentre vige la deroga fino al prossimo 31 dicembre, sono in corso studi per nuovi accordi con gli stati europei per chi andrà a studiare o lavorare nel Paese di Churchill. Sicuramente non varrà più la tessera sanitaria per chi si ammalerà, ma sarà prevista un’assicurazione medica, così come a chi si trasferirà in Britannia sarà richiesto il visto, restando invariati, sicuramente, passaporto o carta d’identità per l’ingresso. Tutto qui? Qualcuno pensava che gli inglesi si sarebbero impoveriti per essersi allontanati dalla tedesca Ursula von Der Leyen e, per vivere, arrangiati con “la borsa nera”, o, peggio, trasferiti in massa in Liechtenstein per non morire indigenti? E l’Italia? Cosa aspetta a svincolarsi da questa moneta unica che ha creato fino ad oggi uno svantaggio competitivo, ostacolato la crescita e privato i nostri governanti della libertà di decidere le nostre politiche fiscali? Non è forse vero che i vincoli europei sul deficit di bilancio penalizzano anche quei comuni italiani virtuosi che, rispettando il patto di stabilità, pur non avendo contratto debiti né essendo incorsi in procedimenti di dissesto, sono inibiti nel poter effettuare investimenti o spese perché qualcuno a Bruxelles si é inventato questa norma? Certe inibizioni sono valse solo per l’Italia, chiaramente, perché la politica dei no e della spending review, applicata dai francesi e dai tedeschi agli altri paesi europei, non è mai stata valida per i loro stati, Francia e Germania. Più recentemente, però, anche Macron e Merkel hanno pagato il fio della loro penalizzante politica, con una batosta elettorale. Proteste e ribellioni a Parigi e l’avanzata della Le Pen, mentre i crucchi, sempre più numerosi, si stanno rendendo conto che per la loro economia lo schwarze null non paga a lungo termine. Questo rigoroso rispetto per il pareggio di bilancio ha creato immobilismo, non ha agevolato la crescita e ha bloccato gli investimenti e, quindi, lo sviluppo. Moneta unica, bilancia commerciale, spread, borsa, tutta materia virtuale, effimera, surreale e ipotetica, che la gente non comprende e che crea conseguenze sociali disastrose. Non parliamo, poi, di moneta unica, decisa a Bruxelles a tavolino da quattro amici al bar, tra cui il nostro beneamato Mortadella, che in cambio dell’incarico di capo dei capi della UE, accettò supinamente che un marco fosse equivalente ad un euro, che un franco fosse pari ad un euro, mentre di lire al cambio ne sarebbero occorse 1936,27. Sarebbe disastrosa per l’Italia l’uscita dall’euro? Non credo. Il ritorno alla lira stimolerebbe le esportazioni grazie alla svalutazione competitiva, poiché la diminuzione arbitraria del valore della moneta nazionale renderebbe più conveniente l’esportazione dei nostri prodotti che costerebbero di meno grazie alla moneta più debole e meno conveniente l’importazione di quelli stranieri perché più cari. Un benefit per la bilancia commerciale. Senza l’euro, l’Italia si sottrarrebbe ai vincoli di Bruxelles, incrementando la sua spesa sociale, potrebbe tutelare le proprie aziende e le relative produzioni. Niente più quote latte da rispettare e quote di tonno in nome di presunti princìpi di legalità imposti dalla UE, elenchi di proscrizione di prodotti nostrani doc e dop, come il parmigiano reggiano, che, secondo alcuni funzionari disturbati, manovrati da deputati in mano alle grandi lobby, fanno male alla linea e alla diete. Niente più contrasti con la BCE, che avrebbe dovuto finanziare il debito dei Paesi associati alla UE, e che, invece, finanzia il debito delle banche europee, per lo più di proprietà di famiglie e holding dell’alta borghesia ebrea, o dovrei dire, ripara i passivi derivanti dalle speculazioni di certi istituti bancari. Per non parlare di quote di migranti e delle afflizioni che abbiamo dovuto accettare da questi prepotenti alti commissari sui continui flussi emigratori, i cui trattati, anche per l’incompetenza di alcuni nostri governanti, hanno sempre penalizzato il Bel Paese. Non sarebbe il caso di far svolgere, serenamente e democraticamente, il referendum anche per noi italiani o certi opportunisti legati alle logiche affaristiche di Strasburgo sono veramente preoccupati del probabile esito?      

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