Per la Cassazione niente assegno di divorzio all’ex che lavora in nero
Per gli Ermellini, non spetta l’assegno di divorzio alla ex moglie che lavora in nero e che presenta condizioni di saluti compatibili con l’attività lavorativa. La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 5077/2021, diramata dallo studio Cataldi, respinge il ricorso di una moglie a cui è stato revocato in sede di appello l’assegno di divorzio. Dagli atti è emerso che la stessa, dopo le dimissioni, in realtà ha continuato a lavorare in nero nello studio dello stesso commercialista presso il quale in precedenza lavorava in regola e che le sue condizioni di salute non le impediscono di svolgere un’attività lavorativa. Vediamo però che cosa è successo in giudizio e perché gli Ermellini non hanno creduto alla versione della donna. Revocato in appello l’assegno di divorzio alla ex. Il Tribunale, con sentenza non definitiva, dichiara la cessazione degli effetti civili del matrimonio, mentre, con sentenza definitiva, affida il figlio a entrambi i genitori, con collocazione presso la madre, stabilendo, poi, a carico del marito, l’obbligo di corrispondere 500 euro mensili per il mantenimento del minore e 400 euro mensili a titolo di assegno di divorzio in favore della ex moglie. La Corte d’Appello rigetta l’appello incidentale della donna, finalizzato a ottenere la revoca dei provvedimenti di cui all’art 709 ter c.p.c., accertando che la stessa non ha diritto ad alcun mantenimento. L’ex moglie però, insoddisfatta dell’esito del giudizio d’impugnazione, ricorre in Cassazione, lamentando la violazione e la falsa applicazione dell’art. 5 della legge sul divorzio, che definisce anche i criteri a cui il giudice si deve attenere nella determinazione dell’assegno di divorzio in favore del coniuge economicamente più debole. La donna si duole, in particolare, del fatto che nel revocare l’assegno di divorzio il giudice abbia ritenuto dirimenti i risultati delle investigazioni difensive, a suo giudizio inidonee a dimostrare l’esistenza di un rapporto di lavoro. La Corte, inoltre, avrebbe trascurato di valutare adeguatamente le certificazioni mediche dalle quali risulterebbe come la stessa sia affetta da una patologia che le impedisce di lavorare. La Corte di Cassazione, però, dichiara il ricorso inammissibile, evidenziando prima di tutto come la moglie, deducendo un vizio di legge, miri in realtà a ottenere una diversa interpretazione dei fatti e, quindi, una decisione conforme alla sua versione dei fatti, attività che, come noto, è preclusa in sede di legittimità. La decisione presa dalla Corte d’Appello, in ogni caso, non risulta viziata sotto il profilo della motivazione. Nel negare l’assegno di divorzio alla donna, essa ha correttamente tenuto conto del fatto che la stessa, dopo le dimissioni come impiegata nello studio di un commercialista, di fatto, ha continuato a lavorarvi in nero dal 2011 in poi. Le sue condizioni di salute, inoltre, non le impediscono assolutamente di lavorate, visto che è in grado di camminare, andare in bicicletta e guidare l’automobile. Generiche, poi, le doglianze relative alle indagini investigative, alle conclusioni del CTU sulle certificazioni mediche da cui risulterebbe la sua inabilità al lavoro e al contributo dato dalla stessa alla formazione del patrimonio familiare, elemento che da solo giustificherebbe il riconoscimento all’assegno di divorzio, alla luce del criterio perequativo e compensativo messo in evidenza dalla SU n. 18287/2018.