Intervista a cuore aperto. Il caso del sacerdote sortinese ridotto allo stato laicale, che ha inviato una supplica al Santo Padre
LA VERSIONE DI PANDOLFO
“Durante la mia malattia psicologica sono stato totalmente abbandonato dalla Curia di Siracusa”
di Giorgio Càsole
Dopo 35 anni di sacerdozio, di cui dieci trascorsi a Palermo come frate minore conventuale, il 57enne Paolo Pandolfo, di Sortino, ridotto recentemente allo stato laicale, ha accettato di esporci la sua versione in quest’intervista
Nella Sua ultima lettera aperta al vescovo di Siracusa, Francesco Lo Manto, Lei non giustifica alcuno dei suoi errori. Quai sono stati questi errori che hanno provocato la condanna senz’appello della Sua esclusione dal clero cattolico? Come ha reagito a questa sentenza?
“Considero la riduzione allo stato laicale, totalmente ingiusta, inadeguata, persecutoria da parte del mio arcivescovo Francesco Lo Manto, per errori o reati da me commessi di tipo amministrativo, non volontariamente commessi per arrecare danno alla chiesa di Dio, ma per una dipendenza detta dalla scienza psicologica “shopping compulsivo”, che mi ha portato a indebitamenti e che ha costretto la Curia siracusana in parte a farsene carico, e in parte me ne sono fatto carico io: debiti che sono stati saldati. Tutti.”
Per la dimissione dallo stato clericale, considerata la pena massima per un ecclesiastico, il Codice di Diritto canonico prevede casi ben precisi quali: l’apostasia, l’eresia e lo scisma, la profanazione dell’eucaristia, la violenza contro il papa o la sua uccisione, l’attentato contro il matrimonio sacramentale, il concubinato, casi gravi in cui il confessore sollecita il penitente a commettere atti sessuali, gli atti sessuali, in violazione del sesto comandamento, fatti con violenza, o minacce, o pubblicamente, o con minori al di sotto dei sedici anni. Poiché il caso in questione non rientra nella fattispecie sopra elencata, cosa ne dice?
”Nella diocesi di Siracusa ci sono stati in passato, come nel presente, scandali di tipo sessuale gravi, eppure i sacerdoti coinvolti, dopo qualche periodo di allontanamento, sono tornati a esercitare il ministero sacerdotale, in tutt’altra parte della diocesi, pienamente in attività. Non si possono usare due pesi e due misure. Non giudico i confratelli, ma chi ha permesso che io fossi messo alla gogna, che vivessi “arresti domiciliari ecclesiastici “ con tutti i danni correlati, psicologici morali economici, per processi di cui già si era deciso l’esito, compresa la denuncia penale, con riconoscimento dei miei errori e patteggiamento di condanna con pena sospesa.”
Lei accusa la Curia siracusana d’avere istruito un processo sommario, che ha comportato per Lei tre anni di sospensione, da lei vissuti come “anni di inferno” anni di ”solitudine insopportabile”, durante i quali Lei dice d’essere stato trattato peggio di un cane. Si è sentito esule, emarginato, a Sortino? Ce ne parli!
“Il processo ha fornito numerosi elementi che hanno evidenziato la non gravità dei fatti tali da richiedere l’ applicazione al caso di specie della II Facoltà Speciale per la dimissione dallo stato clericale, massima pena:
io, sacerdote, malato della patologia di “shopping compulsivo”, con tanto di diagnosi del DSM (Dipartimento di salute mentale, ndr), ho commesso una serie di delitti nel corso degli anni, che, ripeto, ho immediatamente confessato in sede canonica e che ho anche pagato in sede penale attraverso patteggiamento davanti al Tribunale penale di Siracusa al quale ho aderito. È bene precisare che dalla Diocesi non ho ricevuto l’aiuto che dovrebbe essere dato in queste circostanze, bensì venivo semplicemente trasferito da incarico ad altro nonché caricato di ulteriori responsabilità e uffici, quali rettorie e parrocchie. Quindi, in qualità di soggetto malato conclamato, anziché essere aiutato nella cura, mi venivano affidati ulteriori altri incarichi di responsabilità e movimentazione di somme. Sussiste, quindi, anche una culpa in vigilando che avrebbe ben potuto arginare da subito questa mia situazione. Il processo è potuto andare avanti anche e soprattutto grazie alle mie ampie confessioni, che hanno fatto luce su una serie di vicende oscure. Tuttavia, nessun elemento di misericordia è stato a me concesso, se non attraverso una gravosissima misura cautelare impostami e da me rispettata nonostante il contrario sostenuto da certuni. Il processo non ha tenuto conto di circostanze esimenti o mitiganti della pena, essendo la pena della dimissione dallo stato clericale sproporzionata, esagerata e troppo grave in relazione alle condotte da me poste in essere, confessate e di cui mi sono pentito amaramente sin dal primo momento in cui ho avuto consapevolezza di ciò che ho fatto”.
Nell’ultima lettera aperta al vescovo, Lei sostiene che l’arcivescovo Lo Manto ha assunto nei Suoi confronti una “totale insensibilità e freddezza”, con punte di sarcasmo. Si è sentito abbandonato dall’arcivescovo?
“Il vescovo, quale vescovo? E’ Una persona schiva, con la quale non ho potuto mai avere un dialogo tra padre e figlio. Una paternità inesistente. Per lunghi tre anni di restrizioni non ho mai ricevuto una telefonata, un “come stai?”, mai ha cercato di avere informazioni su un percorso terapeutico che io stesso ho voluto intraprendere liberamente, pur avendo dato libertà alla terapeuta Malara di dare le informazioni del mio percorso al vescovo, il quale non credo abbia mai letto solo una riga di quello che la terapeuta in decine di relazioni ha scritto. Come io non ho mai avuto una risposta alle tante lettere dove chiedevo misericordia e perdono e una nuova possibilità di ricominciare la mia vita sacerdotale non necessariamente con impegni amministrativi. Come non ha voluto nemmeno ascoltare il popolo in rivolta sui social, che chiede fortemente che io ritorni al mio ministero. Sono stato totalmente abbandonato dalla mia Diocesi e dai suoi ufficiali trattato alla stregua di un soggetto da emarginare e perseguire, con attività volte a ostacolarmi in ogni possibile guarigione, avendo io continuato il percorso terapeutico solo con le mie forze e con il sostegno di tanti fedeli che mi stimano e nutrono una forte affezione, credendo nel mio ministero. La Diocesi in ogni comunicato fa sempre appello alla misericordia e al perdono, dimenticando di applicarlo a un confratello che è caduto in un grave male, che, giova ripeterlo, ha confessato e di cui si è pentito. Nessuna mia richiesta istruttoria è stata presa in considerazione, avendo chiesto di essere interrogato o sentito dalla Congregazione dei vescovi. Le chiese da me rette, stracolme di fedeli, ancora oggi mi sostengono e rimangono increduli per questo gravissimo provvedimento. Confermando quanto confessato circa lo “shopping compulsivo.” Quand’ero parroco nella parrocchia S. Tecla a Carlentini, con i proventi delle vendite ho provveduto a far erigere la casa di accoglienza “Fratello Mio”,presso l’ex Convitto Istituto Agrariovia 25 Aprile S.N. Carlentini, dove tutte queste somme sono state da me investite per cui siamo riusciti a accogliere più di 150 persone in sette anni fra emarginati, persone di strada, abbandonati, barboni, sfrattati, i quali avevano accesso gratuitamente e a carico della casa di accoglienza, a infermeria, docce, barbiere, pasti caldi, posti letto e supporto spirituale. Purtroppo, non appena sono stato trasferito, il mio successore, come primo atto, ha chiuso questa bellissima realtà e unico punto di riferimento in diocesi. Né il vescovo ha opposto alcunché a tale chiusura, avallandola. Ho dovuto anche subire un decreto di restrizioni, da parte del mio vescovo veramente inaccettabili, che credo non siano mai state date per i peggiori crimini commessi nella Chiesa: celebrazione privata dell’Eucarestia, impossibilità di predicazione, impossibilità di confessioni, restrizioni di movimento dal mio paese di residenza. Mancava solo il 41bis.”
Nonostante le restrizioni, in quei tre lunghi anni, non ha perso la speranza, mi sembra.
“ Ho continuato il mio percorso riabilitativo perché speravo che, obbedendo a tutto quello che il vescovo mi aveva richiesto, pensavo e pregavo che il processo diocesano si sarebbe concluso con una pena da parte del mio vescovo, che avrei sicuramente accettato, pur di ritornare alla mia vita di sacerdote e di evangelizzatore, secondo i continui inviti di Papa Francesco a essere Chiesa in uscita. Ciò che ho fatto per lunghi trentacinque anni”
Durante questi tre anni di restrizioni, Lei era disponibile a fare il volontario. È vero?
“Durante questi anni di percorso riabilitativo per la sofferenza della reclusione a casa, il senso dell’inutilità, delle giornate che non passavano mai, l’impossibilita’ di continuare a coltivare i miei rapporti relazionali con i tanti fedeli e centinaia di ragazzi (che non rinunciano a continuare a chiamarmi ‘padre’, pur consapevoli della mia riduzione allo stato laicale), la terapeuta Malara, il neuropsichiatra dott. Parisi, diverse volte hanno chiesto all’arcivescovo, allegando le dovute relazioni, di lasciarmi la libertà di fare un lavoro terapeutico o di volontariato pur di uscire dallo stato di depressione costante e dagli attacchi di panico. Non solo le richieste non sono state accolte, ma addirittura il mio vicario generale ha avuto l’ardire di scrivermi che se avessi continuato a chiedere questo volontariato retribuito solo per le spese vive di carburante, in una lettera personale (che è nelle mie mani), mi minacciava che se avessi accettato di fare il lavoro terapeutico mi avrebbe tolto il sostentamento del clero. Ai tempi della mia ordinazione da parte di mons. Giuseppe Costanzo, vescovo di santa vita e di paternità indiscutibile, gli uffici diocesani erano guidati da sacerdoti maturi, di sapienza e di equilibrio e di esperienza. Se oggi andate a guardare chi sono i responsabili degli uffici diocesani, vedrete un gruppo di dottorini appena laureati che la cui firma è: dott. sac. Tal dei Tali”.
In quei tre anni quali i tempi del processo?
“Passano i mesi e chiedo notizie per iscritto sullo stato del processo canonico diocesano, credendo che si sarebbe chiuso con una pena da parte dell’arcivescovo. La sera del primo agosto del 2021 vengo convocato in curia dall’ arcivescovo, il quale deve consegnarmi una lettera della Congregazione del clero. (perché non mi hanno comunicato che avevano dato delega speciale alla Congregazione? Credo fosse loro dovere farlo con un decreto), Mentre siamo in attesa del vicario generale e del cancelliere diocesano, l’arcivescovo mi dice testualmente: ‘’T’informo che la Congregazione non ti farà continuare l’esercizio del ministero sacerdotale. Al che mi viene spontaneo chiedere: “Con quale documentazione?” Risposta: “Fonti segretate.” Questo l’ho fatto mettere a verbale dal cancelliere, dopo che ho sentito la lettura della lettera della Congregazione che, sostanzialmente, diceva che l’arcivescovo aveva dato le deleghe speciali, con la richiesta di riduzione allo stato laicale e che avevo un mese di tempo per presentare documenti difensivi attraverso un mio legale. Una lettera arrivata ai primi di luglio, che mi viene consegnata il 1° agosto e con un mese di tempo per trovarmi un legale. quando tuti gli avvocati sono in ferie e avrebbero dovuto studiarsi tutto il processo in un mese. Tuttavia, con l’aiuto di un ex parrocchiano, avvocato penale, riesco a trovare uno dei migliori canonisti sulla piazza di Catania, Nicola Condorelli, il quale chiede subito la deroga di altri 30 giorni per aver il tempo di studiare il tutto e preparare una difesa. Egregiamente, viene fatta la difesa, con tutti gli allegati positivi della terapeuta, e del neurologo, che viene presentata alla Congregazione. Nel frattempo arrivano in Congregazione decine di testimonianze personali di tanti parrocchiani, giovani, coppie di sposi, che vogliono dare testimonianza del mio operato sacerdotale e pastorale. Evidentemente, nulla di tutto questo viene tenuto in conto. La Congregazione si è limitata a fare quello che il vescovo aveva deciso già dal primo momento. Alla fine, il 20 giugno scorso, vengo convocato in una stanza del Santuario della Madonna delle Lacrime, dove, devo dire senza sorpresa , mi viene data lettura della sentenza della riduzione allo stato laicale, che non firmo. Mi viene detto che firmo o non firmo non ha nessuna importanza perché è addirittura inappellabile.(il capo dei capi finalmente è stato fermato!). L’unica cosa che sono riuscito a dire all’arcivescovo quella sera è stato di non poter accettare quella sentenza perché per me quella non era la volontà di Dio. Il vescovo ha dimostrato tutta la sua incapacità a essere padre, rispondendomi con un inaccettabile sarcasmo: “Dimenticavo che tu sei militante tra i carismatici, quindi hai il contatto diretto con Dio”.
Spes ultima dea, dicevano i Romani. Lei, oggi, spera nella grazia del papa, cui ha inviato una supplica per essere reintegrato nelle funzioni, pur restando sacerdos in aeternum. In caso negativo, cosa farà?
“Ho altri progetti che sto valutando, sempre con la mia vita donata a Dio, che una riduzione allo stato laicale non mi potrà mai togliere. Se la riduzione allo stato laicale rimarrà, gliene parlerò.”