L’artista racconta un importante protagonista della cultura italiana dell’ultimo mezzo secolo, recentemente scomparso.
Se ne è andato due giorni dopo la scomparsa della moglie Anna e forse ora comprendo meglio il perché fosse solito guardarmi con attenzione ma sempre in riferimento a Mara, come se in quel riflesso femminile avesse visto il mio (come il suo) completamento, a rintracciare in ogni opera quella luce di lei che spinge oltre l’orizzonte e che forse perfino io non saprei individuare facilmente. Si ama l’arte come si ama la propria donna, al punto da essere dei fissati per quella e solo quella. Magari per un artista viene addirittura prima l’arte, perché in fin dei conti nasce con noi e risuona in noi, fa parte dei movimenti del nostro corpo, del proprio modo di fare, di esprimerci, di vedere la vita. E attraverso di lei scrutiamo il mondo con inquieta profondità, col respiro calibrato di chi vuole immergersi e trovare non il tesoro ma una sirena con la quale perdersi per emergere tra le sue braccia, più forti e sapienti di prima. L’incontro con Pio Monti suscitò in noi qualcosa di mitologico, come se avessimo avuto di fronte una creatura al di fuori della norma-lità: dalle lunghissime leve, dai modi educati ma non convenzionali, padrone di uno stile che non è possibile riscontrare tra i colleghi galleristi, che siano i suoi coetanei – in troppi divenuti col tempo avidi e disincantati – come tra le successive generazioni. Dalle sue altitudini, da quei due metri di “stoffa” dipanava a terra un linguaggio mai banale, tra battute, progetti e tautologie, come a tenere alta l’attenzione dei suoi interlocutori, a dargli stimoli e sentirli vivi, solcando gli arcipelaghi dell’utopia e di quel dadaismo fatto proprio da una mimica inconfondibile.
Nel 2015 organizzò nel suo spazio di Recanati una mia mostra in dialogo con gli scatti di Mario Giacomelli per mettere in risalto per primo la mia impronta pittorica, che persiste anche quando uso la fotografia, in relazione a quella marcata del maestro di Senigallia. Solo foto dunque, solo bianconero, due Mario in sala e un Pio in regia, coadiuvato da Nikla Cingolani che curò tutto al meglio. La mostra era dentro, ma il palcoscenico divenne la piazza, dove con Mara scalza – osservati dallo sguardo furtivo di Leopardi e meravigliato dei passanti – inscenarono una sorta di danza sciamanica a richiamare le pose di Mara delle foto esposte. Un momento di festa che solo l’arte autentica sa donare, perché non si ferma all’opera finita, ma diventa testimonianza diretta, partecipazione gioiosa da condividere con gli invitati, coi presenti, con chiunque sia, persino con un monumento che pareva guardarli di sbieco. Pio aveva quella dote innata alla generosità, credeva nel talento e nell’amore che diventa passione, sentimento non ponderabile, ardore che brucia perfino chi lo appicca. Protagonista per oltre mezzo secolo della scena artistica contemporanea del nostro Paese, pur avendo la sede della galleria a Roma non abbandonò mai la sua terra, celebre fu difatti il viaggio in auto con Andy Warhol per fargli visitare le Marche dove era nato ottantuno anni fa o l’amicizia con quell’altro essere pluridimensionale che era Gino De Dominicis, senza poi raccontare le vicissitudini con Man Ray, col filosofo Martin Heiddeger e ovviamente con quegli ottimi artisti con cui ha lavorato.
Il fatto che se ne sia andato a qualche giorno di distanza dalla sua Anna me lo rende ancor più leggendario, come lui amava definire il mio rapporto con Mara, perché mi conferma che l’amore autentico non è soggetto a regole umane, a esigenze corporali statiche – di cui l’ultima emergenza sanitaria ha reso anziché più sacre, quasi ridicole, al punto da portare ad inseguire la ricetta di un elisir di lunga vita, piuttosto che maturare una riflessione sul significato del vivere – è fatto bensì di regole proprie che si possono mettere in pratica solo se si possiedono per davvero. Pio era concentrato sul presente, sul momento eterno del qui ed ora e dunque decisivo dell’istante, fatto di calembour e di cortesie, di sottigliezze e di quella passione folle per l’arte, propria di chi l’ha voluta conoscere di persona, guardarla negli occhi e non lasciarla più. Ho tra le mani una Polaroid dove siamo tutti e tre insieme, lui appare al centro, con un porticato da sfondo che pare donargli le ali: i suoi due metri e passa d’altezza evidentemente non gli bastavano per contenere quell’impeto visivo, ha deciso di continuare ad osservarci dal più – anzi dal Pio – alto dei cieli.