L’odore del vino
di Giovanna Strano
Continua il fortunato appuntamento del venerdì con le storie e i racconti dei nostri autori emergenti. Oggi, ReportSicilia.com pubblica “L’odore del vino” di Giovanna Strano, scrittrice poliedrica, autrice di numerosi scritti di differente natura, curatrice di mostre, cultrice della bellezza. Tra i lavori più recenti segnaliamo “Vincent in Love” edito da Cairo editore e “La Diva Simonetta. La Sans par”, da Aiep. Vanta, infine, diverse pubblicazioni di natura tecnico-giuridica con edizioni De Simone.
Stasera una lieve foschia avvolge tutta l’isola. Il sole comincia a essere obliquo, i suoi raggi si distendono lievi arrossando le pareti del Castello Maniace, adagiato sul mare quieto e inerme dell’imboccatura del porto.
Ma qualcosa di insolito è nell’aria. Una nuvola sottile, invisibile, trasparente. Gli uccelli si dilettano a roteare nell’atmosfera tiepida e tersa di un pomeriggio di primavera, in apparenza come tutti gli altri.
La staticità di quest’immagine che si dispiega davanti a me, sul terrazzo odoroso di rose e gelsomini della mia casa, in cima al promontorio della Penisola della Maddalena, riflette pienamente l’inerzia del mio corpo, insensato e inutile.
Ormai mi è permesso solo di muovere le braccia, il collo, la testa… e di pensare. Avrei preferito fare a meno del pensiero, della lucidità. Invece penso, profondamente, faccio solo questo, e soffro.
Quando finirà questo lungo giorno, interminabile, lungo quanto una vita, capace di dissolversi in un attimo oppure di spegnersi fiocamente nell’incoscienza dell’oblio. La solitudine, il silenzio fitto, oramai mi accompagnano perennemente, senza lasciarmi…
Ricordi… tanti ricordi affollano la mente, solo quelli mi danno ristoro e amarezza insieme, per il tempo perduto, per le parole non dette, le carezze non fatte… e ora tanto rimpiante.
Ma forse il mio è un vano vagheggiare del nulla, di qualcosa che è strettamente legato all’essere limitato, in quanto uomo… forse, qualunque cosa avessi fatto, ovunque fossi andato, ora starei ugualmente a rimpiangere. La perdita per ciò che non è più resta inesorabilmente insita in ogni fragile esistenza.
Le prime luci si accendono sull’isola di Ortigia.
Il quadro prende vita, palpita di azioni, di intendimenti mossi dalle consuetudini di ogni giorno dell’umanità in frenetico movimento.
Io osservo, dall’esterno, quasi come esaminavo da bambino un formicaio operoso e pullulante sbucare tra i granelli marroni del terreno. Curioso restavo immobile a immaginare la finalità, il senso profondo insito nella natura, l’istinto vitale che muoveva quelle condotte, strettamente collegate tra loro nell’intento di dare forma a un progetto, di completare il mosaico di ogni tassello mancante.
Mi chiedo se ho tratto insegnamento da quelle lunghe ore di analisi, se sono stato propositivo, coerente, sensato, se sono riuscito a esprimere ciò che pulsava nel mio petto, in tutto il corpo, nella mia anima.
La forte voglia mi pervade, attraversandomi con impeto, di entrare dentro il quadro, di avere un’altra possibilità, di potere riprovare… ma nulla cambia… ho già avuto le mie opportunità… il tempo passato non ritorna e mi inchioda alla poltrona morbida, immobile, inesorabile. Una barca, lieve, ondeggia tra le onde, trascinata lentamente dalla forza della sua vela bianca, gonfiata dal vento… scorre davanti a me come la vita stessa.
La giovinezza, la beltà, l’attrazione fisica sperimentata, scoperta avidamente tra i campi, sui sassi, nel mare… Poi l’amore per Angela, la mia dolce Angela… mi ha amato più di se stessa. In nome del nostro amore ha rinunciato a tanto, si è piegata, ha sofferto, ha urlato dentro di sé per le sconfitte e i duri colpi subiti… anche da me. L’ho amata tanto, ma nell’intimo dell’anima… non rinunciando alla durezza, alla mia chiusura inviolabile.
Avevo paura di amare troppo, di restare indifeso, di espormi alla sofferenza, all’angoscia della perdita… e così ho sbagliato tutto. L’ho persa ugualmente, nel dolore profondo di essere stato io, inconsapevolmente, a mandarla via.
Quanta amarezza tra i ricordi…
Afferro il campanello posto sul tavolino innanzi… concentro le mie deboli forze sulla mano, lo stringo, lo scuoto.
Arriva subito Elvira, la donna che da qualche anno mi accudisce e mi aiuta nella malattia, chiuso in questa gabbia dorata che io stesso ho creato anni fa… credendo di avere bisogno di tranquillità, di solitudine… scavandomi un fosso buio nel quale perdurare, stanco e ammalato. Le faccio segno verso la bocca. Lei capisce subito e ritorna con un vassoio, sul quale dondola il liquido vermiglio di una bottiglia appena stappata, racchiuso da un sottile cristallo bombato posto in alto al gambo trasparente e liscio.
Poggia il calice sul tavolino rotondo, intarsiato di fiori e foglie stilizzate, e va via.
L’odore del vino, intenso e pregnante, si diffonde nell’aria. Il rosso rubino, innanzi a me, si mescola al tramonto che infuoca dietro alle montagne lontane che incorniciano il porto. Il mare, con le sue lievi onde increspate dall’aria che volteggia incurante, quasi giuliva, si colora di mille tinte calde e luminose.
Prendo il bicchiere tra le mani tremanti portandolo al viso. L’aroma penetra nei miei polmoni inebriandomi l’anima di un attimo di piacere. Sorseggio lentamente, assaporandone ogni goccia preziosa… dovrò aspettare domani per gustare nuovamente di questo momento, proibito per la salute e tanto anelato come unica via di fuga.
Quest’attimo deve necessariamente prolungarsi, fino all’indicibile.
Le ho fatto del male, quasi volutamente, forte dell’amore che provava per me, della sua incapacità di staccarsi… di vedere la sua vita senza di me. L’ho usata, disprezzata, come se non fosse importante… le ho fatto credere che non valesse niente, per dominarla, per restare io il più forte.
Che stupido.
Pensavo di poterla possedere, come tutti gli oggetti più o meno costosi di cui mi sono circondato nella mia esistenza, di poterla tenere prigioniera, intrappolata in una rete dolorosa… che uccide lentamente, senza darle niente… avaro di affetti e di sentimenti.
Quando è andata via è stato come essere travolto da un’onda che arriva… la vedi, la valuti, ti accorgi che è più alta del solito, più imponente, ma credi di poterla fronteggiare, di essere più forte, di avere tutto sotto controllo… e invece ti investe con violenza, ti trascina, ti frantuma. All’inizio sei incredulo, pensi non sia come sembra, che tutto ritornerà come è sempre stato… e invece passano le ore, senza che niente accada, e i giorni, i mesi, gli anni, la vita intera vuota e insignificante.
Mi sono illuso di dimenticarla, di riuscire a disprezzarla, cercando altre donne… ma ogni volta il vuoto si è fatto sempre più grande, fino a scavare una voragine interiore. L’unica gioia, che mi resta dentro, è la certezza che lei sia stata mia, che mi abbia amato, voluto, desiderato.
L’amore è un sentimento forte che ha un valore solo perché ha albergato dentro noi, anche se soltanto per un istante… ma è stato nostro e noi siamo stati suoi… La penombra avvolge il mare, trasudante di salsedine, e la mia anima buia. Il bicchiere, sul tavolino, è quasi vuoto. Resta ancora qualche goccia, a trattenere l’inesorabile scorrere del tempo, a fermare un attimo, un ricordo, un lampo.
Sorseggio lentamente, osservando il mio viso stanco riflesso sulla superficie liscia del bicchiere.
S’io fossi… vino, sarei un vino invecchiato, lavorato… ricercato per l’origine remota, che gli ha dato pregnanza, consistenza, profondità… sarei di nuovo amato e anelato.
E soprattutto questo bicchiere non sarebbe più quasi vuoto.